Un viaggio tra attesa, dubbi ed accettazione

Da maggio vivo in questa lunga attesa, come se il tempo si fosse fermato, sospeso sopra di me, pesante come una nube carica di pioggia. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ho aspettato. L’esame del DNA doveva essere la chiave, la risposta che avrebbe messo ordine nel caos della mia mente. Mi avrebbe spiegato il perché, il come, il motivo per cui il Parkinson è entrato nella mia vita senza bussare, senza avvisare. Era colpa di una mutazione genetica? Forse sì, forse no. E così, ho aspettato. Ho aspettato, e l’attesa stessa è diventata una prigione. Ogni giorno che passava senza una risposta mi scavava dentro. Il ritardo, quella continua incertezza, mi ha riempito di ansia, paura, e una frustrazione che non trovava sfogo. La mia mente non smetteva di porsi domande, di costruire scenari, di cercare un senso. Perché il ritardo? E se fosse un brutto segno? E se la risposta fosse più difficile di quanto immaginassi? Era come vivere sospeso su un filo sottile, senza sapere se sarei caduto o avrei raggiunto l’altra sponda. E poi, finalmente, quel giorno è arrivato. La risposta. La busta. Il referto. Ho aperto tutto con mani tremanti, il cuore in gola, la mente divisa tra la speranza e il timore. E il verdetto è arrivato: Negativo. Nessuna mutazione genetica. Nessuna spiegazione chiara. Una parte di me ha tirato un sospiro di sollievo. Non era una questione di geni, non era qualcosa che avevo ereditato o trasmesso. Ma quasi subito, quel sollievo è stato sopraffatto da un’altra emozione: il dubbio. Se non è genetico, allora perché? Perché proprio io? Cosa è successo nella mia vita, nella mia storia, per meritare questo? Cosa ho fatto di sbagliato? Mister Park, come ormai lo chiamo, è entrato nella mia esistenza senza invito, e io non riesco a capire perché abbia scelto proprio me. C’è qualcosa che avrei potuto fare per evitarlo? O è solo una questione di destino, un capriccio del caso? Mi sento come un naufrago in mezzo al mare, circondato da onde di domande che non trovano risposte. Ho sperato tanto che il test del DNA mi desse una direzione, una verità a cui aggrapparmi. E invece, tutto ciò che ho ora è un altro enigma. Una parte di me vorrebbe arrendersi, smettere di cercare un perché. Ma l’altra parte, quella che non riesce a fermarsi, continua a scavare. Forse, però, la risposta non arriverà mai. Forse Mister Park non ha una ragione, non ha un piano. Forse è il mio compito accettarlo, trovare un senso dentro di me, non fuori. E anche se non sarà facile, anche se la frustrazione e la paura rimangono, so che devo andare avanti. Perché questa vita, anche con le sue ombre, è ancora la mia. E io non posso permettere che il Parkinson, o il mistero che lo circonda, definisca chi sono.

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