Mangiare è diventato un teatro della mia fragilità. Ogni pasto è una messa in scena dolorosa, dove il protagonista non sono io, ma il Parkinson che mi costringe a confrontarmi con la mia impotenza. Ogni tremore della mano, ogni cucchiaio che non arriva a destinazione, sembra un piccolo fallimento, un promemoria incessante di quanto sto perdendo. Mi guardo intorno, quando sono con altri, e non posso fare a meno di sentire il peso degli sguardi, reali o immaginari che siano. “Lo vedono? Si accorgono di quanto sono goffo?” mi chiedo. Ogni goccia di cibo che cade, ogni tentativo maldestro di afferrare un pezzo di pane sembra gridare al mondo intero che non sono più quello di una volta. E io lo so. Lo so fin troppo bene. Non è solo il mangiare a essere difficile, ma tutto ciò che rappresenta. Quel gesto semplice, che un tempo facevo senza pensarci, ora mi umilia. È come se ogni pasto fosse una lotta persa in partenza, un promemoria crudele della malattia che si prende, pezzo dopo pezzo, la mia autonomia. Mi sento intrappolato in un corpo che non risponde, in una mente che vorrebbe scappare da questa realtà ma non può. E poi c’è la vergogna, profonda, silenziosa, che cresce dentro di me. Non voglio che gli altri mi vedano così. Mi rendo conto che questa goffaggine non è colpa mia, ma non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione di essere inadeguato, rotto. Anche quando sono da solo, sento la stessa vergogna, come se giudicassi me stesso con una durezza che nessuno mai mi riserverebbe. Mangiare non è più un momento di piacere o di nutrimento; è una lotta contro di me, contro ciò che il Parkinson sta trasformando in me. Ogni boccone è carico di frustrazione, ogni pasto lascia un retrogusto amaro di sconfitta. Mi chiedo, a volte, quanto ancora riuscirò a sopportare questa sensazione, quanto riuscirò a convivere con questa immagine di me stesso che mi fa così male.

 

 

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