Ogni giorno, mi sveglio e sento il peso del mio corpo come fosse una corazza di piombo. So già che oggi sarà come ieri: le mani che tremano appena tento di fare qualcosa, i muscoli che sembrano ribellarsi, e poi quel vuoto, quella mancanza, un’assenza silenziosa che non posso spiegare a parole. È la dopamina che manca, dicono i medici, ma non è solo una questione di chimica. È un pezzo di me che si dissolve, che se ne va, lasciandomi addosso una spigolosità che gli altri notano, ma che nessuno, nemmeno io, riesce veramente a capire. Mi rendo conto che sembro sempre burbero, scontroso. Qualcuno direbbe anche “duro” o “poco flessibile.” Non lo nego, forse è vero. Ormai il mio carattere è diventato una fortezza che mi avvolge e mi protegge, ma allo stesso tempo mi isola. Mi scopro a rispondere in modo brusco, a chiudermi in silenzi ostinati, quasi fossi in un eterno duello con chi mi sta intorno e, a volte, con me stesso. Eppure, dietro a quella corazza, sento ancora una fragilità che mi spaventa. Quando mi accorgo che il tremore alle mani rende complicato anche solo allacciarmi i bottoni della camicia, provo un misto di rabbia e vergogna. So che basterebbe un gesto di aiuto, una parola gentile, ma non riesco ad accettarli. Piuttosto alzo un muro, mi irrigidisco, come se quel mio essere brusco fosse un modo per controllare qualcosa in un mondo che sembra ogni giorno più fuori dal mio controllo. Le persone attorno forse vedono solo la spigolosità, il burbero che mi sono costretto a diventare. Non vedono, però, il me stesso che combatte ogni giorno, che cerca un modo per non farsi sopraffare da questa malattia che non ti concede tregua.
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