Quando il piede si blocca e non riesco ad alzarlo da terra, sento che qualcosa dentro di me vacilla. È come se, in quel momento, il mio corpo mi ricordasse la sua fragilità, il suo limite. E subito la paura mi assale, una paura che non è solo fisica ma anche mentale, perché mi porta a interrogarmi su ciò che sta accadendo. Forse è il Parkinson, penso. Non riesco a ignorare quel pensiero che si insinua, come un’ombra lunga. Lo vedo nei piccoli dettagli: quel gesto che richiede più tempo, il nome che non arriva subito alla memoria, e la riflessione che diventa necessaria per colmare una mancanza. Mi ritrovo a vivere con la consapevolezza che ogni movimento, ogni ricordo, non è più qualcosa di spontaneo, ma una creazione, un atto deliberato che richiede impegno. E allora mi chiedo: chi sto diventando? L’età avanza, e con essa sviluppa non solo i segni della stanchezza, ma anche uno spazio di riflessione più ampio. La vita mi obbliga a fermarmi e a guardare quello che prima davo per scontato. Mi accorgo che il mio corpo è una mappa del tempo, un archivio di esperienze, ma anche un luogo che mi parla di sfide e adattamenti.
In prima persona, sento questo:
Non sono solo il mio corpo che rallenta, né la mia mente che si sofferma. Sono anche il mio pensiero che resiste, la mia volontà che insiste nel creare significato, anche quando tutto sembra più difficile. La paura non mi definisce; è una compagna inevitabile, ma non la padrona del mio cammino.
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