Il morso lento del Parkinson

Il Parkinson è una condanna senza appello, un veleno che si insinua nel corpo e nell’anima, un’ombra che si allunga senza tregua, soffocandomi. Non chiede il permesso, non concede tregua, non sente ragioni. È un ospite indesiderato che mi strappa via, giorno dopo giorno, tutto ciò che ero, lasciandomi solo la carcassa di un’esistenza che non riconosco più. Ogni mattina mi sveglio con la speranza, per un solo istante, che tutto sia stato solo un incubo. Ma poi provo a muovermi e la realtà mi travolge come un’onda gelida: il tremore, la rigidità, il senso di impotenza. Il mio corpo non mi appartiene più, è diventato una prigione dalla quale non posso evadere, un guscio che si sgretola lentamente, inesorabilmente. E gli altri? Mi guardano con compassione, con imbarazzo, oppure fingono di non vedere. Eppure, il loro sguardo mi trafigge lo stesso. Qualcuno cerca parole di conforto, ma io so che non esistono parole giuste, perché nessuno può davvero capire. Nessuno può immaginare cosa significhi sentirsi intrappolati dentro se stessi, essere lucidi mentre il proprio corpo diventa un ostacolo, un peso morto. Vorrei gridare che sono ancora io, che dentro questa gabbia di carne tremante esisto ancora, ma la mia voce esce spezzata, incerta, come se anche lei fosse ormai ostaggio della malattia.
E il peggio non è solo quello che gli altri vedono. Il peggio è dentro di me. È sapere che questo male è un nemico invincibile, che non posso combattere, che mi toglierà tutto, pezzo dopo pezzo. È la consapevolezza che sto scivolando via, lucido testimone della mia disfatta. Non c’è nulla che io possa fare, se non assistere impotente al mio stesso declino. Cammino su un filo sottile, sempre sull’orlo del cedimento, con la paura costante che un giorno anche questo sarà impossibile. Il mondo attorno continua a muoversi, indifferente, mentre io mi sgretolo in silenzio, prigioniero di un corpo che si ribella contro di me. E la notte non è un rifugio, è un tormento. Sogno di correre, di muovermi liberamente, di tornare a essere quello che ero. Poi mi sveglio e il risveglio è un colpo al petto, un ritorno violento alla realtà. Il Parkinson è ancora lì, più forte, più radicato. È un parassita che mi divora vivo, senza fretta, senza pietà. Ogni giorno porta via un pezzo in più, ogni giorno mi trascina più vicino a un baratro da cui non vedo via d’uscita. Non vedo la luce in fondo al tunnel. Solo il buio. Freddo, eterno, inevitabile. Mi sento vinto, svuotato, risucchiato in un abisso dal quale non posso fuggire. Forse questa è la cosa più crudele: non solo la malattia, ma la consapevolezza di non poter fare nulla per fermarla. È l’attesa di perdere tutto. Lentamente. Senza scampo.