Il ladro silenzioso

Il mio corpo non mi appartiene più. Ogni giorno il Parkinson si prende un pezzo di me, come un ladro che non ha fretta, che si insinua nei movimenti, nei gesti, nelle azioni più semplici e le trasforma in sfide impossibili. Pensavo di aver già provato abbastanza, di aver conosciuto il dolore, il tremore, i crampi che mi inchiodano al suolo come radici marce. E invece no. Adesso tocca alle mie mani. All’improvviso le dita si fermano. Non rispondere. Non tremano nemmeno, non si muovono, non reagiscono. Sono lì, inerti, come se non fossero più mie. Provo a chiuderle, ad alzarle, a stringere un pugno, ma è come comandare un arto morto, come urlare dentro un silenzio che non ha risposte. È una paralisi temporanea, dicono. Temporanea. Come se questo potesse consolarmi, come se qualche minuto di immobilità fosse meno crudele di un’ora, di un giorno. Eppure basta quel breve istante per farmi sentire un prigioniero. Basta un attimo per capire che non ho più il controllo, che il mio stesso corpo è diventato una trappola dalla quale non posso fuggire. E la paura? È lì, sempre più grande, sempre più insistente. Perché se oggi dura pochi minuti, domani quanto durerà? Quanto tempo passerà prima che questa paralisi diventi la mia nuova normalità? Mi guardo le mani e provo rabbia, un senso di ingiustizia bruciante. Non chiedo molto, solo di poter essere me stesso, di poter afferrare un oggetto senza paura, di poter sfiorare senza il terrore che il mio tocco svanisca nel nulla. Ma il Parkinson non si accontenta di toglierti il ​​movimento. Ti porta via la sicurezza, la dignità, la libertà di essere padrone del tuo stesso corpo. E io? Io resto qui, prigioniero di questa malattia che non ha volto, che non ha pietà. Aspetto che passi, sapendo che tornerà. Sapendo che, alla fine, vincerà.